SofiaRoney
laboratorio filosofico
Per un’archeologia del postfordismo
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A proposito dell’incontro con Paolo Virno

Uniroma3, 10/5/2011

 

Paolo Virno, autore di E così via all’infinito e di Convenzione e materialismo (1985), che la casa editrice DeriveApprodi ha ripubblicato con una nuova prefazione, in una lineare, lucida e compatta ricostruzione dell’ambito filosofico che ha visto nascere e crescere il concetto di postfordismo in Italia, ha descritto le modalità fondamentali con cui le condizioni della produzione materiale sono mutate, a partire almeno dal 1989.

La costruzione di una teoria critica all’altezza dei tempi si colloca all’interno di un pensiero materialista che rifiuta la nostalgia delle grandi narrazioni prodotte dalla retorica dello stato- nazione e del welfare lavorista nel XX secolo, ma rifiuta anche (insieme al lavoro) un pensiero debole che in nome della relativizzazione urla la fine della storia e dei conflitti e spinge ideologicamente la fine delle ideologie.

In quest’ “aria del tempo” la critica dell’esistente iniziava a esercitarsi non solo  nella quotidianità, in giornali ed eventi che hanno avuto una ricaduta politica immediata, come testimoniano gli archivi delle pagine “cultura” del Manifesto alla fine degli anni Ottanta, ma anche in una rivista come “Luogo Comune” che aveva iniziato a sperimentare un nuovo paradigma critico, incentrato sulla disamina di sentimenti pervasivi delle società post-statuali, in cui da est a ovest, trionfava il libero mercato.

Il senso e la posizione di “Luogo comune” era quella dell’inchiesta teorica in grado di snidare, nel presente, alcuni dei tratti specie specifici della natura umana, a partire dai mutamenti strutturali del capitalismo.

Mutamenti in profondità se è vero che, almeno a partire dalla fine degli anni Settanta, la repressione dei movimenti e dei conflitti sociali e la sconfitta operaia con cui iniziava il decennio Tatcher-Reagan, cominciava a delineare la crisi della mediazione statale tra capitale e forza lavoro, la cui misura fino a quel momento era rappresentata dal salario. Dunque con il cosiddetto “riflusso nel privato” ciò che schizza in superfice nella vita quotidiana sono affetti, sentimenti e relazioni sociali immiserite che il capitalismo assume come base produttiva.

In questo quadro una serie di costumi e movenze delle società postindustriali, dalla recrudescenza di parole obsolete (fidanzata/o, impegno/disimpegno, intellettuale, massa), all’adozione di stili di vita incardinati nell’opportunismo, il cinismo e la paura – come recita il sottotitolo di una bella raccolta di saggi dei primi anni Novanta, Sentimenti dell’aldiquà –  raccontavano forme di esistenza che testimoniavano la modalità postfordista dei organizzazione del lavoro e quindi dello sfruttamento.

Cosa davvero mutava nel capitalismo dell’automazione? Mutava la natura stessa del lavoro e il rapporto tra forza lavoro e profitto. Fino alla metà degli anni Settanta erano entrambi regolati dalle conquiste operaie e imbrigliati nella legge del valore, in grado di quantificare il tempo di lavoro necessario erogato. Con l’estensione del sistema automatico di macchine all’intero processo produttivo, lo sfruttamento è esteso lungo l’arco dell’intera giornata lavorativa che non  distingue più un tempo di lavoro e un tempo libero; così lo sfruttamento si esercita sull’intera soggettività umana, passioni, affetti, relazioni, modi di esistenza, che hanno a fondamento la facoltà di linguaggio.

 

“Luogo comune” è stato uno dei laboratori più produttivi del paradigma postfordista per almeno due motivi. Il primo: affetti, sentimenti, relazioni, rinominati nella modalità dello sfruttamento del general intellect producevano davvero in quei primi anni Novanta, insieme alla produzione informatica e all’”industria culturale”, forme di vita contrassegnate e per lo più ripiegate su giuochi linguistici in cui era apertamente visibile la prassi di valorizzazione.

Il secondo: il mutamento di tempi, luoghi e forme dello sfruttamento era la testimonianza inequivocabile della disdetta della vulgata marxista che assegnava alla struttura economica il primato rispetto rispetto ad una sovrastruttura simbolica  e culturale separata.

La valorizzazione dei “sentimenti dell’aldiquà” indicava invece l’inseparabilità, che Marx del resto mai ha messo in dubbio, della realtà dello sfruttamento dalle modalità in cui si esercita, per cui  affetti, relazioni e dunque conflitti si danno nel capitalismo come contenuti immediati del general intellect cioè dell’insieme delle facoltà umane da valorizzare.

Questa modalità integrale di sfruttamento però, a partire dagli inizi degli anni Ottanta, non si esercita solo all’interno della fabbrica in cui vige la catena di montaggio, ma anche all’esterno, nei “nuovi lavori” autonomi, nel cosiddetto terziario avanzato, con la creazione di figure inedite, il tecnico informatico, il grafico pubblicitario, il lavoratore dello spettacolo, figure che hanno ridisegnato il panorama della metropoli .

Da un lato dunque assistiamo ad un’estensione delle modalità di valorizzazione di stili di vita, e soprattutto facoltà eminentemente umane, oltre la fabbrica e il suo regime fordista; dall’altro troviamo una congerie di nuove figure del lavoro irriducibili al lavoro subordinato, flessibili e per natura irrappresentabili presso partiti e sindacati, sia pure quelli operai.

Questa moltitudine fluttante di soggettività per le quali non c’è più una distinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro si trovano proiettate in un territorio metropolitano in cui convivono regimi economici di sfruttamento diversi: la piccola impresa, l’impresa familiare, la cooperativa di servizi, l’intermediazione finanziaria, l’agenzia immobiliare, frutto dell’esplosione del regime fordista e della moltiplicazione irrefrenabile dei modi di produzione della ricchezza.

Ciò che la messa in produzione di affetti e relazioni produce d’altra parte è proprio ciò di cui all’apparenza c’è un’istituzione e una formalizzazione: le professioni e la professionalità.

Di fatto quella che viene spacciata per specializzazione delle mansioni, conseguente alla divisione del lavoro, è il contrario della professionalizzazione. Infatti viene valorizzato non uno specifico e particolare profilo o una qualche “vocazione”, bensi la generica capacità umana di lavorare, parlare, amare, provare affetti, cooperare.

Il mito delle professioni che impregna di sé tutti gli anni Novanta e buona parte del decennio Duemila, (e che oggi si chiama merito) almeno fino alla crisi del debito del 2008 si rivela la più grande stupidaggine mediatica che il decennio abbia prodotto, non simbolo di un ruolo sociale bensì segno della modalità sistemica e microfisica del dominio.

Così, anche la cosiddetta cooperazione che Marx aveva scoperto nello sfruttamento proprio del regime di fabbrica non ha il senso che comunemente si attribuisce al concetto, cioè di una differenziazione qualitativa delle mansioni al fine di realizzare una merce, un progetto, un’idea, oppure di una associazione del settore terziario.

La cooperazione nel capitalismo postfordista è invece il modo in cui le generiche abilità umane di creare, immaginare, progettare risulta immiserita, regolata e gerarchizzata.

Ciò che eventualmente bisogna considerare, anzitutto per differenziarla dalla cooperazione eretta a sistema, che sia il toyotismo degli anni Ottanta o la sorveglianza informatizzata dello stabilimento di Melfi, è la cooperatività, cioè la facoltà umana della libera associazione di produttori, liberi dal lavoro.

La riflessione sul postfordismo è utile dunque per forgiare una teoria critica che sappia definire e differenziare i concetti stessi di cui si nutre, perché solo compiendo quest’opera può contribuire ad un radicale mutamento dello stato di fatto.

Ciò significa cominciare a tradurre quegli stessi concetti di cooperazione, di comune, di singolarità, di capitalismo cognitivo (che è andato incontro ad un altro enorme equivoco, pensando che il general intellect corrispondesse alle funzioni intellettive superiori dell’essere umano e che i migranti di Rosarno non rientrassero in questa categorizzazione…), in definizioni appropriate a partire da una ricostruzione etimologica, che ne chiarisca la genealogia.

Il compito di una filosofia che sia ontologia del presente deve senz’altro iniziare dall’esame della distinzione tra comune e universale e definire i rapporti attuali tra comune, stato e sfera pubblica, per uscire dall’equivoco dell’identità di pubblico e statale e realizzare il comune nella lontananza sia da ciò che è statale, sia da ciò che è privato.

 

paolo b. vernaglione

 

 

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