SofiaRoney
laboratorio filosofico
Esodo e Tumulto nella costruzione del comune
Categories: General

Alcune riflessioni sull’incontro con Paolo Virno

ESCatelier, 18/03/2011

Paolo Virno, in una sala bella e affollata, ha fatto una vera e propria ricognizione di temi di teoria politica, in pratica argomentando la serie
produttiva di elementi teorici che da più di 20 anni animano la teoria critica del postfordismo, le varie idee che l’operaismo ha elaborato, e la filosofia che egli ha praticato, in testi quali Convenzione e materialismo, Sentimenti dell’aldiqua, Grammatica della moltitudine, Esercizi di esodo, nonchè nella rivista “Forne di vita”.

Il tumulto per sua natura è anzitutto un paradigma “imprendibile”, che attraversa la storia politica e taglia obliquamente il concetto di categoria politica. Spezza infatti la sovranità, non produce mutamenti nello status della decisione e non genera una “classe politica” nè prima nè dopo essersi prodotto.

E’ infatti una delle articolazioni con cui si compie l’esodo, anzitutto dalla società del lavoro, ma soprattutto dal concetto canonico di una sfera pubblica (arendtianamente intesa) produttiva in quanto analoga per sua costituzione alla dimensione del lavoro salariato, che la incorpora come sua faccia complementare.

Di fatto quindi il tumulto è iscritto nella dimensione dell’esempio e la sua riproducibilità è possibile proprio per la sua unicità.

E’ evidente la sua natura antistatalista, già rivelata da Machiavelli –  in grado di spezzare il dominio della sovranità perchè si colloca nello stato d’eccezione che il potere statale stesso produce e che solo è in grado di governare. Qui si manifesta un punto teorico fenomenale e allo stesso tempo problematico, già evidenziato da Spinoza (Trattatto teologico-politico) nella dismissione della categoria di “miracolo” e nella sua relativizzazione, nonchè nella costituzione repubblicana che il tumulto intona.

L’evento tumultuoso infatti è un miracolo secolarizzato che da un lato non revoca lo stato d’eccezione (ma spezza il monopolio della decisione politica, con buona pace dei sovranisti schmittiani di sinistra), dall’altro non si pone come kathékon, come freno alla devastazione del potere propria del suo accadere.

Si potrebbe dire che il miracolo delle moltitudini è pensabile e possibile all’interno di un “doppio vincolo”: il monopolio della decisione e lo svuotamento della sovranità, l’ essere segno vuoto del potere.

Il tumulto accade insomma quando il dominio vige in una sovranità svuotata di senso.

La sua natura elude fin dal principio la necessità da parte di una qualsiasi aggregazione politica di trovare una continuità e una organizzazione “dopo” l’evento. L’esigenza tutta novecentesca di dare continuità alle lotte e far vivere la condizione costituente del tumulto in uno stato di cose mutato è surclassata dall’evento stesso, dalla sua perioditictà, dalla sua estensione temporale.

Questo pensiero è difficile.

Infatti essendo il tumulto una articolazione fondamentale dell’esodo, il suo darsi politico implica un sottrarsi “per natura” agli effetti di un passaggio di sovranità.

Non solo. Il darsi in questa modalità implica una relazione mutata tra rivoluzione e rivolta. Il tumulto infatti non è rivoluzione a causa della sua natura “miracolosa” non pre-prganizzata, o almeno non prevista, bensì attesa; ma non è solo rivolta perchè non rinchiusa in una negatività senza impiego.

In una faglia spazio-temporale in cui il general intellect si pronuncia non in primo luogo come scienza, bensì come intelletto sociale, facoltà comune di linguaggio, pensiero, affettività e cooperazione nell’ evento generale della produzione, in quella rottura, in quella faglia, l’estensione dello sfruttamento all’intera vita può divenire tumulto.
Ma questo significa anche rottura della democrazia rappresentativa (di una produzione regolata, di un welfare nazional- statuale) e l’istaurarsi della cooperazione come misura della produzione; o meglio lo stagliarsi della cooperatività come base produttiva.

Con ciò la dinamica dell’esodo attraverso il tumulto profila il comune.

La migliore evocazione di uno stato di fatto in cui l’esodo (dalla società del lavoro salariato, ma anche dalla condizione di precarietà di “ritorno”, come avviene agli operai FIAT licenziati o vittime del piano Marchionne, o alle folle del Maghreb) si coniuga all’evento del tumulto è stata descritta da Hirschmann nella dinamica di “exit” e “voice”.

L'”exit”, la linea dell’esodo (che non è nè il rinchiudersi nella sfera privata nè l’abbandono di una situazione che non porta vantaggi economici individuali) è un divenire in cui c’è accumulo di forze, intreccio di destini singolari, creazione di un fronte, spazio di vita delle moltitudini “sans phrase” (ed è importante questa genericizzazione della singolarità moltitudinaria, per non cadere nella retorica delle “plebi”, degli “oppressi”, dei senza patria, lavoro, terra etc…).

La “voice” è il divenire della protesta tumultuosa, l’evento di rottura dello stato di cose, come risultante di quell’accumulo, come enunciazione dell’intera facoltà umana, si potrebbe dire dell’intera facoltà di linguaggio sottratta al lavoro e disposta nell’esodo.

Questa dinamica mostra due processi: un’opera di scavo della “vecchia talpa” che non ha da fermarsi a causa di una qualche fine della storia; e una costituzione di soggettività, che inerisce in primo luogo alla mobilitazione dell’intera natura umana (precedente perchè seguente all’organizzazione di un soggetto politico).

L’evocazione di un esperimento di qualche tempo fa, che ha funzionato da esempio, cioè le camere del lavoro e non lavoro, può rappresentare la concretizzazione di una prassi in cui sia dà la possibilità di un’istituzione del general intellect…

Molti sono stati i motivi e gli interventi nella seconda parte dell’incontro, in cui è stata evidente la voglia e l’urgenza di confrontarsi su un piano teorico e filosofico che non si chiuda in una precipitazione politica immediata.

Alla luce di ciò, alcune considerazioni:

Un laboratorio filosofico dovrebbe realizzarsi in un “salto” di pensiero e di prospettiva e intrecciare relazioni e teoria “fuori di sè”. Occorre estendere i divenire e lasciarsi dietro un certo minoritarismo per approcciare un pensiero critico le cui soggettività sono in movimento. Un laboratorio dev’essere di continuo ricostituìto, deve dare adito ad una nuova perimetrazione dei suoi spazi di riflessione, cioè d’agire; ad una presa “istituzionale”, nel costruire davvero il comune.

Per questo bisogna interrogarsi sulla nozione di soggettività, quella singolare e quella pubblica, cercando di articolare la fuoriuscita dall’identità, anche quella di ritorno, inerente alla “purezza” di un presunto soggetto immune dalle pratiche di bassa politica.

Questa pretesa del “nuovo” è un’ illusione da anime belle che, insieme al minoritarismo, fustiga e comprime invece di far correre lungo la linea dell’esodo, o comunque dell’evasione dalle pratiche costituìte.
Creare pensiero, fare filosofia, indagare la natura umana significa sporcarsi le mani cioè istituire un pensiero dell’immanenza senza residui teologico-politici, che siano quelli di uno stato d’eccezione permanente, o quelli dettati dalla nostalgia di una sfera pubblica trasparente.

Insomma, intorno ai regimi di verità, alle prassi di soggettivazione e del comune intelletto generale, cioè della messa a profitto dei saperi, dei rapporti di essi con i poteri e dell’intreccio tra autoformazione e autorganizzazione come zone di distinzione della natura umana, cioè della facoltà di linguaggio, è tempo di enunciare quali rapporti e quali prospettive si aprono tra giochi linguistici e forme di vita.

Questo è il campo di problematizzazione da indagare, mentre sul piano della relazione con altre realtà bisognerebbe praticare una riflessione sul genere, sulle diversità, sulle imprese delle diversità, sul piano d’azione di una singolarità oltre i generi, sul piano di conflitto del desiderio, sui mille piani del divenire potenza di un pre e un transindividuale nelle diverse trame del postfordismo.

Farsi dunque archeologia del presente in una sua scrittura, in una iscrizione, in una redazione, in una pratica di “giornalismo filosofico” che affondi lo sguardo dove è più insidioso guardare, dove è più pericoloso avventurarsi, dove è più aspro risalire.

 

paolo b. vernaglione

 

“Da sempre e proprio ora”. Per una genealogia del postfordismo.

Incontro con Paolo Virno, a proposito di Convenzione e materialismo

19 aprile 2011

Facoltà di Lettere e Filosofia, Uniroma3, via Ostiense 234

Aula “Verra”, ore 16,30

 

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