SofiaRoney
laboratorio filosofico
Il drago e le formiche
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Lavoro cognitivo, capitale globalizzato e conflitti in Cina

La nuova accumulazione originaria del capitale, a differenza dell’Inghilterra del XV secolo, si espande in Cina, terra promessa. Come si sa è nell’Impero di Mezzo che i flussi globali della finanza e della conoscenza, accompagnati da un’industrializzazione forzata e spettacolare, una feroce repressione e una mobilità inaudita, costituiscono il capitalismo 3.0.

La Cina, apparentata in questi anni di crisi mondiale all’India e al Brasile, quanto a tassi di sviluppo, ma superiore ad entrambi per crescita annua, intorno al 9%, con 800 milioni di lavoratori, oltre ad essere il paese in cui un iperliberismo senza limiti ha travolto lo stesso modello di sviluppo euroamericano, è anche il continente in cui gli effetti della globalizzazione si manifestano con una potenza senza pari: massima mobilità del mercato del lavoro ed estrema pauperizzazione; sviluppo abnorme del settore immobiliare e delle infrastrutture; crescita esponenziale dell’energy tecnology, dell’industria informatica e dell’auto nel paese più inquinato del mondo; delocalizzazione selvaggia delle aziende, delle multinazionali e dell’Università; massicci investimenti nella formazione (dai centri di ricerca, alle scuole professionali, agli stages) valorizzata brutalmente nell’industria pubblica e privata. Salari bassissimi e assenza di welfare (che hanno prodotto suicidi, scioperi e un certo miglioramento nella retribuzione, stante l’ignobile condizione di vita cui milioni di studenti-lavoratori, migranti e operai specializzati sono costretti).

Questi aspetti, e non solo la devastante crescita incensata dai media internazionali, fanno della Cina il fenomeno recente del capitalismo globale che ha fatto saltare le categorie classiche di analisi dell’economia politica e soprattutto della sua critica che, fino alle riforme di Deng Xiao Ping alla fine degli anni Settanta dello scorso Novecento, aveva continuato a produrre comunismo.

l’Impero celeste è infatti il continente dei paradossi che ne fa la parte forse più striata del mondo, tanto per archiviare la lettura neocolonialista redatta dall’attuale letteratura entusiasta del capitalismo di stato.

Attraverso l’inchiesta, come ha fatto Paolo Do nell’essenziale Il tallone del drago (ed. DeriveApprodi) emerge la complessità e soprattutto la “necessaria impossibilità” dell’oriente, in cui si trovano intrecciati processi produttivi, regimi lavorativi e stadi della formazione diversi, accomunati dalla veloce mobilità e territorializzazione metropolitana – in un cortocircuito della globalizzazione che è l’elemento senz’altro nuovo dell’accumulazione capitalista di questo inizio di secolo.

Do, dottorando alla Queen Mary University of London, ma con una densa e contemporanea esperienza di militante nei conflitti sul sapere, ha vissuto diversi mesi tra Hong Kong, Singapore, Shanghay e Beijing, inchiestando studenti, operai, proprietari di piccoli negozi, ma soprattutto quella enorme massa di migranti, costretti a spostarsi dalle campagne nelle metropoli in un moto perpetuo all’interno delle regioni più sviluppate: Guangzhou, Shenzhen, nel sud della Cina, laddove, risalendo il Pearl River Delta si incontrano i fenomeni di urbanizzazione e di aggregazione sociale più nuovi e impressionanti.

Dagli slums della proletarizzazione ai dormitori delle aziende (do you know Prato, near Firenze?), dai campus agli istituti professionali, dai cubicoli monofamiliari alle abitazioni-garage in cui giovani dai 18 ai 30 anni vivono magari per pochi mesi, per spostarsi in quartieri in cui guadagnare poche decine di reminbi in più, Do ha perimetrato un insieme di situazioni esistenzial-lavorative che compongono il mosaico Cina, restituendo un quadro ben lontano dal liscio e nitido disegno dei reportage sul turbocapitalismo asiatico che propina la stampa mainstream.

Lì, in quella che fino a qualche decennio fa era la periferia dell’Impero si è profilata la nuova accumulazione originaria, fatta di esproprio di beni e infrastrutture, sviluppo di una manifattura delocalizzata ad alta intensità di manodopera, bassi salari e dominio generalizzato sul lavoro senza diritti. Questi processi dislocano i flussi globali di conoscenza, tecnologia e finanza responsabile della bolla speculativa immobiliare, dell’innalzamento vertiginoso del debito pubblico, finanziato con gli espropri della proprietà pubblica compiuti dalle municipalità e con l’acquisto del debito statunitense.

Quello di Do è in sostanza un riuscito esempio di archeologia del presente, incentrato sull’inchiesta, che si dimostra il metodo più preciso per ricostruire l’insieme delle dinamiche sociali utili alla produzione di conflitto, come proprio in Cina è avvenuto con gli scioperi degli operai per l’innalzamento dei salari, i picchetti e il blocco a macchia di leopardo dei flussi e della mobilità.

Il quadro che si evince dall’agire del “tallone del Drago”, cioè quella manodopera migrante, cognitaria e operaia che costituisce la forza lavoro su cui poggia il peso dello sviluppo cinese è ben ritratto in una delle pagine dell’agile libro di Do: «La più grande migrazione della storia umana è iniziata quasi trent’anni fa e in questi anni il ritratto del migrante è profondamente cambiato. Nei cantieri edili e nei ristoranti, nei servizi di pulizia, del riciclo, nei negozietti che tengono aperti tutta la notte dove si possono comprare sigarette e liquori, nei supermercati e nei sempre più numerosi centri commerciali sono impiegati per la maggior parte lavoratori migranti. Non solo riempiono le catene di montaggio nelle fabbriche dell’export: dalle ragazze minute che lavorano nei karaoke bar ai bordelli, dagli addetti alla sicurezza agli autisti di taxi, sono sempre più i migranti impiegati nell’economia dei servizi metropolitani».

Questo è il flash che ci consente di capire cos’è la Cina oggi e di quali contraddizioni la crisi del neoliberismo si nutre, come ci consente di capire quali sbocchi questa crisi avrà, quale frontiera del post-fordismo dovrà percorrere e quali esiti avrà l’intreccio sempre più inestricabile e spesso mortale (come nel caso dei purtroppo famosi suicidi della Foxcomm l’azienda produttrice di iPod e iPhone) di high education, working poor e ammassamento umano in quartieri recintati in cui vige una biopolitica della miseria e del ricatto permanente, esercitata in modalità intergenerazionale.

Il tallone del Drago si snoda tra incursioni iniziali nel sistema educativo e nel mercato cinese del lavoro che, scopriamo, “non portano più a niente”, a differenza di venti anni fa quando la “fabbrica del mondo” era agli inizi del suo forsennato sviluppo e veri e propri affondi nelle realtà metropolitane di nuova formazione, nel sud del continente, in cui il caldo umido e le polveri sottili compongono uno scenario da industrializzazione primo-novecentesca.

Infatti ad una prima fase di modernizzazione del paese, coincidente con le riforme degli anni Ottanta che hanno introdotto un liberismo di stato gestito dal partito, in cui si assisteva ad una progressiva proletarizzazione di masse contadine non accompagnata però da impoverimento, si sostituisce una seconda fase, micidiale, i cui esiti sono visibili su larga scala: generazioni nate a ridosso di Tien An Men, migrano da una città all’altra; la «socializzazione del lavoro passa per il prisma della formazione, ed è caratterizzata da forme di impoverimento sociale».

In sostanza nasce una nuova figura ibrida di lavoratore della conoscenza, dotata di abilità e saperi superiori, impiegata in mansioni al di sotto della soglia di una formazione di base e contrassegnata dal regime della fabbrica fordista. Il collante del mercato del lavoro in Cina è l’impoverimento, perché sia il l’operaio che il colletto bianco dell’azienda informatica (senza differenze tra la locale sede Microsoft e la cinese Lenovo), il colletto verde dell’intensa energy industry che sarà il futuro dello sviluppo capitalistico mondiale, lo studente-lavoratore, formato nei campus o nelle scuole professionali e lo stagista sono integralmente sfruttati, derealizzati dall’intensa mobilità, in una de-territorializzazione permanente che muta la metropoli in luogo di  disappartenenza, quasi in tempo reale.

La strategia dell’apertura di Deng negli anni Ottanta ha istituìto una serie di «zone economiche speciali che hanno accompagnato l’ingresso degli investimenti stranieri». A Shenzhen, oggi una delle città che tirano l’economia della Cina, come a Xiamen, Zhunhai, Shantou, vige uno stato d’eccezione giuridico, politico ed economico permanente, poiché questi aggregati industriali, provvisti di dormitori e quartieri-ghetto, non rientrano nella legislazione statale.

Là è stata sperimentata la politica dei bassi salari e la discriminazione dell’ hukou, la cittadinanza a punti di cui difficilmente possono giovarsi i mingong, i non contadini e non operai migranti, per lo più stagisti impiegati senza contratto nelle “Silicon Valley” del Pearl River Delta. E’ questa la Cina dei ritmi di crescita impressionanti, che vive la crisi in alto con l’agio dell’apprezzamento dello yuan, effetto delle politiche di rigore della Banca Centrale cinese; e in basso con la «standardizzazione del lavoro cognitivo e una sorta di neo-taylorizzazione della ricerca. Forme di lavoro ripetitive, vere e proprie catene di montaggio dell’immateriale non sono infatti estranee al mondo della valorizzazione della conoscenza, dove l’alto skill delle mansioni coincide con la loro ripetitività».

Questa eccedenza valorizzata è però anche il motore della contradizione forse più potente del capitalismo cinese. Quel paradosso che consiste nell’impiegare milioni di studenti, lavoratori, impiegati nelle aziende “verdi” e dell’ energy tecnology che per produrre pannelli solari e dispositivi a basso consumo, adoperano materiali inquinanti e ad alto consumo energetico.

Questa contraddizione si affaccia nel panorama dell’ibrida economia asiatica quando, nel 2001, la Cina entra nel WTO, spinge potentemente sull’export e inizia a territorializzare mari e continenti, anzitutto Europa e Stati Uniti.

Come Do riporta, la Cina inizia a difendere i propri interessi sui mari con norme ed eserciti antipirateria e  nei mercati dell’immateriale con la spietata concorrenza alle industrie informatiche statunitensi, da Oracle a Google, culminata con il trasferimento dei server Google ad Hong Kong, dopo una guerra informatica a colpi di oscuramenti e blocchi dei motori di ricerca. Nascono così Baidu, il motore di ricerca solo cinese, anzi putonghua, la lingua comune che ha rinazionalizzato in senso semantico la ricerca in rete, QQ, interfaccia per la messaggistica che supera MSN, e Youku.com che batte Youtube.

Che questa scansione dell’accumulazione sia opera dello stato, anzi del partito-stato che impone una repressione senza limiti all’insieme dei regimi della comunicazione e delle forme di ribellione, testimonia che per l’attuale dirigenza (la Cina non ha sostenuto «i bond greci così come i titoli di Stato dei paesi europei in dificoltà») la minaccia più concreta all’economia è la possibilità, attraverso la rivendicazione di diritti e l’innalzamento dei salari, di un welfare europeo che limiti il potere dello stato sulla forza lavoro migrante e riequilibri il mercato mondiale del lavoro (con gran danno, tra l’altro, di Marchionne e company).

Ciò che la gran parte della manodopera impiegata rivendica è infatti ricchezza.

“La ricchezza è gloriosa» recitava uno slogan di Deng quando l’esigenza del partito era l’urbanizzazione forzata. Questo slogan è scritto sugli striscioni nei picchetti operai che le lotte dell’estate 2010 hanno espresso e allude ad una redistribuzione del reddito a prescindere dalla mansione lavorativa svolta, dalle sue condizioni e dalla sua durata.

Da questa rivendicazione e dalle lotte sul lavoro, in cui è palese la tendenza al divenire reddito del salario possono forse sbocciare i mille conflitti che pongono fine al ciclo lungo dell’economia postimperiale.

Opossum3e

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